mercoledì 18 agosto 2021

 

La favola di Kena

Nel popolo Xosa, una delle tante tribuù che vivono in Sud Africa,  c'era una vecchia di nome Shala, aveva una figlia e quando dai monti blu si spostavano nel bush per trovare pochi fili di erba verde  per il bestiame, erano giorni di marce e speranza, di fredde notti di occhi affamati e di orme alla ricerca di prede. Rami spezzati, alberi mossi da freschi aliti di vento, sussurri ed echi di passate paure erano  musica di queste terre lontane.

La figlia di  Shala, per molti giorni svaniva, evanescente, mistica, padrona di antiche credenze, scrigno e libro parlato di un popolo antico, e molti erano preoccupati per lei, a pensarla sola e indifesa nella notte profonda, tremante e smarrita senza un fuoco come amico o qualcuno che conoscesse la vita, tranne Shala, il nome della figlia era Kena, gambe di antilope, pelle colore dell' ebano, lucida di oli e di memoria antica, di vecchia stirpe senza paure,  mentre la notte ruggivano i leoni, ridevano tristemente le iene e altre forme di scuri fantasmi si muovevano furtive .

Nelle misere capanne difese solo da rovi e rami di acacie dalle lunghe spine, fuori solo piccoli fuochi per rischiarare la notte, e dare un po’di coraggio un pò di calore per allontanare forme maligne dalla mente e dal cuore. Per molti mesi Kena non fece ritorno al villaggio, i vecchi la davano morta, e le vecchie dai volti rugosi cosparsi di cenere bianca con i loro crespi e bianchi capelli, cantavano e invocavano le ombre della notte, chiedendo loro perdono e protezione, i giovani valorosi guerrieri, a notte si chiudevano nelle capanne per paura dei mangiatori di uomini, o intorno ai fuochi, stretti a sussurrare parole,  solo Shala sorrideva e cantava, cantava in una lingua diversa, intrisa di note piumate di sogni cadenti e di misteri ancestrali ed anche le stelle ascoltavano vibranti formando collane di luci stellari e la luna si faceva gioco del freddo argento tingendosi un po’ d’oro.

E un canto lontano di pura bellezza, di gioia e dolore, di amore e speranza, squarciava il tempo e colorava il sangue di un rosso diverso. Un giorno un leone arrivò vicino al villaggio, aveva tra le labbra un cucciolo umano, fece tre volte il giro dei rovi, ed altre tre volte urlò alla luna, poi depose il neonato tra l’erba ruggì ancora tre volte mentre Shala usciva dal villaggio e si avvicinava cantando una strana canzone, il leone la guardò, occhi gialli più giallo dei gialli, venati di buono e di comprensione, contro occhi d’amore occhi da saggia, criniera da re al cospetto di maga portatrice di vita e lei la vecchia madre tese la mano e lo accarezzò, il leone l’annusò e i suoi occhi divennero azzurro di mare e di cieli immensi e profondi,  poi frustando l’aria con la coda scomparve nella nebbia tra il bush.

Il piccolo aveva gli occhi di Kena, la pelle di Kena, il sorriso di Kena, da quel giorno ogni notte il leone ruggiva tre volte, e poco dopo, un canto lontano si alzava melodioso, una canto di acqua, di vita, di luce, di libertà, d’incanto, di coraggio e tristezza, di amore e rispetto, il canto antico di un popolo,  il sospiro di una terra incantata e violenta , sfregiata dal Dio ricchezza, affamata e sporcata da bianche mani portatrici di morte, il canto di Kena, e se in silenzio con il cuore che vuole ascoltare, quella voce lontana ti prende per mano.

M. Ricci



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